Sono molto più legati all’Italia di quanto si pensi, i Young The Giant. In primis perché il loro successo del 2012 Cough Syrup li ha fatti esibire in delle cornici straordinarie (Trl Awards in piazza a Firenze e Primo maggio a Roma) e poi perché il chitarrista della band Eric Cannata ha padre italiano. «Sono nato in America – ci ha detto presentando a Milano il nuovo album della band, Mind Over Matter – ma il mio papà ha origini italiane e ho avuto fino a qualche tempo fa una fidanzata di Legnano. È lei che mi ha fatto scoprire la vostra musica…Ci piacciono gli Afterhours, con cui ci siamo trovati una sera fuori. E poi Jovanotti». Eric con Sameer Gadhia ( voce), Jacob Tilley (chitarra), Payam Doostzadeh (basso) e François Comtois (batteria) anima la band che è sulla scena da 10 anni esatti, specialmente nel circuito indie californiano. Dal 2009 il loro nome originario (The Jakes, dall’acronimo dei loro cognomi) è stato cambiato nel più sognante Young The Giant e oggi lanciano anche in Italia il disco che è uscito in Usa a gennaio (subito in top 10). Giovedì 5 giugno saranno ai Magazzini Generli di Milano.
Quali artisti conoscete della musica italiana?
«Ci piacciono gli Afterhours, con cui ci siamo trovati una sera fuori. E poi Jovanotti, che ha più stile di tutti sia quando canta che quando si presenta, sempre cool con i suoi vestiti. Qualcuno lo conosce? Vorremmo incontrarlo.»
Siete tornati con un disco più difficile dell’esordio. A cosa è dovuto questo cambio?
«Non volevamo metterci un solo messaggio ma l’idea di fondo era renderlo in linea con quello che stavamo attraversando come band. Che è stato un percorso non sempre facile, perché avevamo la pressione di proseguire su una strada che finalmente si era mostrata giusta. Ma non volevamo ripeterci. Quindi i dubbi e gli ostacoli personali dovevano essere superati nel modo giusto e l’abbiamo fatto divagando, cercando tante influenze per la nostra musica, senza curarci della ricezione delle radio o cose simili.»
È difficile fare musica oggi?
«In America le cose più interessanti arrivano dai piccoli festival e pochi artisti bravi davvero riescono ad emergere. Quindi crediamo ci siano tante schifezze in giro ma anche tanta buona musica che è solo esposta, magari su internet, in attesa di essere scovata.»
A chi è rivolto Mind Over Matter?
«C’è molta ispirazione dai fatti personali, a volte è come se scrivessimo delle conversazioni che bisogna comprendere. Ma a volte gli ostacoli sono pure costruiti solo nelle nostre menti e ci ritroviamo a superarli senza accorgercene. Volevamo fare questo messaggio di positività: dopo esserci arenati su un blocco autorale ne siamo usciti fuori componendo proprio la canzone che fa da titolo all’intero disco.»
La vostra musica com’è oggi?
«Non abbiamo paura di incorporare suoni più sintetici o altro, come del resto ci ha insegnato in maniera molto amichevole il nostro produttore Justin Meldal. Lui è soprattutto un musicista e per questo lo vogliamo con noi. Ci ha saputo rendere alcune idee fantastiche e ci ha sviluppato il concetto del disco molto bene, non trascinandolo distante da noi. E poi ha lavorato con tutti gli artisti che ci piacciono, tra cui Beck che non ha mai fatto un disco simile all’altro. Solo dopo averci lavorato ci è venuto in mente che aveva prodotto M83 e siamo diventati ossessionati con quel lavoro.»
Anche Morrisey in passato ha avuto parole di apprezzamento su di voi, come reagite?
«È surreale, ancora non ci crediamo che sia successo. In seguito a quell’endorsement c’è stato un lungo periodo di scambi per email, ma ora lui ne cambia una alla settimana ed è difficile stargli dietro. Forse è un alieno, ma ha molta voglia di comunicare con le persone e con noi lo ha fatto.»
Come vi accolgono a casa dopo tanti successi intorno al mondo?
«Vogliamo mantenere il contatto con la vita e la realtà e quando torniamo a casa ci diamo alle relazioni famigliari, agli amici. Abbiamo uno spirito di appartenenza molto forte. Siamo sempre ben consapevoli di chi siamo, non abbiamo paura di perdere i legami perché quello che ci è successo su scala mondiale ancora non l’abbiamo capito. Certo fa sempre effetto quando raduni la famiglia e fai sentire i demo dei nuovi pezzi…ok, la mamma non direbbe mai cose brutte, ma vedere la loro reazione con un nuovo disco è stato bello. E in ogni caso speriamo sempre che il meglio sia ancora da scoprire in futuro.»
Il momento che avete capito di avercela fatta?
«Poco prima di fare il tour italiano due anni fa, quando da soli abbiamo fatto dei sold out in dei teatri in cui ci esibivamo prima con altri artisti. Vedere che la gente pagava per vedere noi è stato bello. E poi quando abbiamo suonato qui per la prima volta, sentire ragazzi che cantavano con il nostro accento in una lingua non loro…è stato travolgente.»
Come definireste le nuove canzoni?
«Nostalgiche malinconiche, cosmiche, fuori dallo spazio. Le rappresentiamo anche con delle immagini nei video o nelle copertine. Questo disco ha una grafica con una foto di fumo e cascata, in qualche modo siamo noi che dobbiamo attraversarlo. Abbiamo sperimentato con il suono e quindi il disco che oggi portiamo in tour è di passaggio verso il nuovo, ci piace pensare che queste canzoni siano un ponte verso quello che saremo.»