Recensione libri: “La moglie afghana” di Fariba Nawa

«Non tutte le donne sono nate libere. Fariba Nawa intreccia i ricordi e la sua storia personale di riconciliazione con la sua patria, l’Afghanistan, con un coraggioso ritratto del traffico dell’oppio che sta dilaniando il Paese, distruggendo la vita ed il futuro dei cittadini». Queste parole dal sapore profetico sono state pronunciate circa vent’anni fa da Khaled Hosseini, l’autore del best seller Il cacciatore di aquiloni, alla pubblicazione del libro La moglie afghana di Fariba Nawa, Ed. Newton Compton, pag.382 ,traduzione di Maurizio Bartocci.

I recenti avvenimenti che riguardano questa Terra, dilaniata dalla lotte religiose, dalla droga, dal triste fenomeno delle spose-bambine, dalle condizioni di arretratezza culturale delle donne, quasi impongono la lettura di questo libro-inchiesta per comprendere chi sono veramente i talebani e quale futuro avrà l’Afghanistan.

Le immagini che ci ritornano alla memoria sono quelle  trasmesse dai telegiornali di tutto il mondo: civili incolonnati verso le strade che portano all’aeroporto di Kabul con la speranza di salire su un aereo che li porti via e che addirittura si arrampicano sulle ali dei veicoli andando incontro ad una morte certa, madri disperate che affidano i loro bambini ai soldati americani facendoli passare attraverso fili spinati, talebani che sparano alle folle di disperati per disperderli, bambini  scalzi ed affamati che piangono perché hanno perduto nella calca i loro genitori.

La moglie afghana è un libro preciso e denso di avvenimenti, è un libro toccante e sconvolgente che riesce a coniugare la verità del reportage alla narrazione  poetica del romanzo i cui protagonisti sono persone reali e che vivono sulla loro pelle le contraddizioni di un Afghanistan dilaniato da lotte interne ed abbandonato al suo destino dalle potenze straniere.

L’autrice Fariba Nawa, nata in questa Terra martoriata e lasciata quando aveva solo nove anni per recarsi con la famiglia in America e precisamente in California, dopo 18 anni, diventata giornalista, decide di ritornarci per scoprire le sue radici. E così da Herat, sua città natale, intraprende un viaggio doloroso e si rende conto della  triste realtà in cui versa il popolo afghano.

Il fenomeno che la colpisce in particolare è quello delle “spose dell’oppio”. Darya è una di queste. A dodici anni è costretta da suo padre, un trafficante di oppio, a sposare un signore della droga molto più vecchio di lei,  che ha già due mogli e numerosi figli.

Non ci si può sottrarre al nikah ovvero la cerimonia islamica che unisce in matrimonio un uomo e una donna. E Fariba legge negli occhi di Darya tutta la sua disperazione.

«In questa ragazza spaventata vedo il legame con la mia patria. So poco di lei ma è come se la conoscessi da sempre. Lei è l’Afghanistan. La sua bellezza e la sua innocenza, la sua resistenza al controllo, il suo desiderio di indipendenza, la sua disperazione, la supplica per ottenere l’aiuto da parte di un’estranea. Per tutti i secoli della sua storia, l’Afghanistan ha cercato di formarsi un’identità indipendente dai Paesi stranieri, ma chiedendo aiuto proprio a quei Paesi. Adesso le cose non sono diverse. Gli Stati Uniti e i loro alleati dicono di essere qui per salvare l’Afghanistan, eppure al tempo stesso lo distruggono». (pag.142)

E in questa ricerca disperata di Darya, accompagnata da diversi maharam che indossano pirahan tomban ovvero delle lunghe tuniche con dei pantaloni larghi, l’autrice ritrova se stessa sulle note di un canto popolare sabza o sulle melodie del più famoso cantante afghano scomparso Ahmad Zahir, infagottatata in uno scolorito chador. Forse Darya ha imparato ad obbedire, è diventata una brava ragazza. Questa capacità di adattamento continua a tenere segregate le donne afghane ma è anche il loro modo per sopravvivere.

Fariba Nawa termina con queste parole il suo bel libro: «Un giorno incontrerò  Darya e lei mi racconterà la sua storia. Voglio credere che sia ancora uno spirito libero e che conservi il suo indolente fervore, che sia se stessa sempre, che possa uscire a fare spese, ridere forte e gridare a pieni polmoni» (pag.347).

Noi lo auguriamo a tutte le donne.