Si intitola “Bio-” il nuovo disco della cantautrice lombarda Marilena Anzini. Artista che al centro ha sempre posto attenzione per il suono dell’uomo e della natura, la voce come vettore primigenio di ogni significato qui si eleva a solenne testimone con le Ciwicè, l’ensemble vocale che lei stessa dirige. La vocalità dunque diviene quasi ritualità a corona di un suono che vi invitiamo a scoprire, denso di sintesi e “biologia” anch’esso: citando testualmente dalla sua cartella stampa, troviamo “l’ammaliante arpa celtica di Ludwig Conistabile, musicista e musicoterapeuta, e la splendida voce di Nicoline Snaas, nota cantante e formatrice vocale olandese. C’è poi un piccolo intervento vocale di Giorgio Andreoli che suona anche un particolare scacciapensieri proveniente dalle steppe della Mongolia nel brano conclusivo dell’album”. La canzone d’autore ha un nucleo portante che la Anzini da tempo cerca di sottolineare. Siamo noi. È il nostro sentire. Sono dischi di delicatissima quiete.
Iniziamo da un centro: l’ensemble vocale delle Ciwicè. Di cosa si tratta? Che angolo è della tua carriera?
Le coriste che compongono l’ensemble vocale Ciwicè facevano parte di un laboratorio corale che ho tenuto per tanti anni, dove si lavorava sulla relazione con la voce, sull’Improvvisazione vocale, sul circlesinging e su un repertorio etnico e world-music. Quando ho dato inizio a questo progetto orientato all’incontro tra la canzone d’autore e il canto corale, ovviamente ho coinvolto loro: erano già preparate e in sintonia con quello che avevo in mente. Così sono davvero diventate il centro di questo progetto, così fortemente caratterizzato dagli arrangiamenti vocali. È una prospettiva importante della mia carriera, a cui tengo molto, perché fa riferimento al mio amore per la voce che considero non soltanto uno strumento di espressione artistica, ma anche di formazione umana personale e collettiva: infatti le Ciwicè sono un gruppo molto affiatato, pur comprendendo tanti caratteri e attitudini diverse. Credo fortemente che l’attività corale e musicale sia un ottimo allenamento per sviluppare l’attitudine all’ascolto e alla relazione costruttiva: è uno strumento straordinario per costruire comunità, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno, oggi più che mai.
La strumentazione che troviamo nel disco lascia tantissimo spazio alla voce. Per te cosa rappresenta per davvero la voce? Strumento o narrazione?
Credo che la voce sia il suono più versatile che c’è, tanto che il confine tra strumento e narrazione risulta essere molto labile. Anche quando parliamo seguiamo un’intonazione, soprattutto noi italiani, tant’è vero che all’estero dicono che cantiamo anche quando parliamo! La differenza è nell’estensione delle note che è più estesa nel canto (ovviamente non sto parlando di rap/trap e cose simili) e nel fatto che c’è una struttura con delle regole musicali. In ogni caso noi cantiamo sia quando diciamo qualcosa, sia quando cantiamo il testo di una canzone: insomma, il confine tra la parola con il suo valore semantico e il suono con la sua intonazione e il suo timbro non è per niente definito. In questo ambito, che in una canzone di Bio- ho chiamato “Tra il silenzio e le parole”, mi muovo con molta attenzione e curiosità. Trovo che il suono e l’intonazione con cui dire certe cose abbiano un’importanza anche maggiore delle parole stesse, ad esempio un suono sussurrato comunica qualcosa di diverso da una voce timbrata e ancora diverso da una voce gridata. È addirittura possibile usare solo il suono come narrazione, non è certo una novità: basti pensare al lavoro di Bobby McFerrin, Demetrio Stratos, Cathy Barberian… e si possono raccontare cose anche con un linguaggio inventato, come ci insegnano i bambini -i migliori maestri del mondo- quando giocano. Tutto è comunicazione, che ne siamo consapevoli o meno. Quando una persona ci parla con un ritmo molto elevato, in fretta e furia, a prescindere da ciò che ci sta dicendo ci comunica ansia…e al contrario quando una persona ci parla con calma, magari anche in una lingua straniera che non conosciamo, ci comunica pace…è la meraviglia del suono della voce: racconta l’essere umano prima ancora che le parole e la musica.
E arriviamoci ai suoni scelti oltre la voce: che ricerca hai fatto e cosa cercavi di raggiungere?
Ti direi che la mia ricerca è volta soprattutto all’ascolto: sia quando scrivo che quando compongo cerco il più possibile di restare in un atteggiamento ricettivo e lascio il più possibile che sia la canzone a “dirmi” dove vuole andare e di cosa ha bisogno. Così in “Tai Chi” per esempio, l’atmosfera un po’ rarefatta del brano ha suggerito a me a Giorgio Andreoli, produttore di Bio- così come dei due precedenti dischi Oroverde e Gurfa, il suono suggestivo e onirico dell’arpa celtica, suonata meravigliosamente dall’amico, musicista e musicoterapeuta Ludwig Conistabile. O in “Lezione da un seme” ho usato il ronroco, uno strumento boliviano simile ad un ukulele, le cui cinque corde doppie, fatte con un nylon ricavato dalle fibre della canna da zucchero, mi hanno suggerito l’argomento del testo. In “Tra il silenzio e le parole” c’è questo finale molto festoso con suoni senza parole, e nelle orecchie mi suonava chiaramente la voce stupenda della mia amica e collega Nicoline Snaas, e poi ci serviva qualcosa che riempisse un po’ per dare il senso di crescendo e così abbiamo aggiunto questa specie di scacciapensieri che ci ha portato un caro amico dalla Mongolia. E poi c’è la mia chitarra acustica, con la quale scrivo la maggior parte delle canzoni e, last but not least, Michele Tacchi che suona (ma io dico che “lo fa cantare”!) il basso in molti brani e ci accompagna sempre dal vivo, andando a riempire quella banda di frequenze gravi che le voci femminili lasciano scoperta. Insomma, ti direi che quello che cerco di raggiungere è di mettermi al servizio della canzone, come se volessi aiutarla a scriversi da sola. Non è facile e non è certo detto che io ci riesca, ma a volte accade, e in quei momenti vivo un’esperienza insostituibile, di presenza assoluta e di connessione profonda. Per me scrivere canzoni è una sorta di meditazione.
“Bio-“ lascia immaginare qualcosa che raccoglie un senso alto di verità… o sbaglio?
Urca, che domandona! Non so bene cosa risponderti: posso solo dirti che di sicuro nel mio processo creativo c’è sempre una ricerca di verità, di autenticità. È un viaggio il più possibile profondo dentro me stessa, nella mia parte “originale” che non intendo come eccentrica o diversa da tutti, ma connessa con l’Origine. L’intento è di entrare in un “luogo” che non sia solo mio, ma in comune con tutti gli esseri umani; quella parte umana che, per me, ha a che fare con lo Spirito che connette tutto, noi e il creato. Per me la musica riguarda questo; è un linguaggio universale che va ben oltre l’individualità di ciascuno di noi ed è capace di parlare di Assoluto: per questo può fornirci una chiave d’accesso verso lo spirituale che ci permea e ci circonda. Con questo non voglio certo dire che la mia musica riesca in questo intento, ma di sicuro è un orientamento che tengo sempre ben presente nella scelta delle cose che scrivo, con la speranza per lo meno di avvicinare, per quanto mi è possibile, questo altissimo ideale che, per me, dovrebbe essere il cuore di ogni opera d’arte.
Dal vivo che dimensione prende il disco?
Dal vivo i brani si arricchiscono della parte più bella della musica, cioè di chi ascolta: senza gli ascoltatori la musica è incompleta. Nei concerti cerchiamo spesso –quando possibile- di coinvolgere il pubblico in una circle song finale, per far sì che il loro ascolto diventi ancora più attivo: questa cosa crea una connessione ancora più profonda. Di recente Stefano Bollani ha detto in una trasmissione televisiva: “Non dimentichiamo che la musica non è solo intrattenimento, ma cura e rito” e io sono molto in sintonia con questo concetto. Mi piace ricordare anche che il grande Leonardo Da Vinci chiamava “sventurata” la musica perché, tra le arti, era quella che non lasciava traccia di sé: è vero, alla fine di un concerto la musica prodotta sparisce, ma non sparisce l’effetto che essa ha prodotto dentro di noi. La musica lascia un’impronta, perché ciò che ascoltiamo ci tocca e ci cambia, che ce ne accorgiamo o meno.