Locke, opera seconda di Steven Knight, è un film “coraggioso”, artisticamente valido, con inquadrature interessanti e primi piani molto intensi (si perde, a volte, in virtuosismi attoriali e piccoli déjà vu ma è il classico ago nel pagliaio). Un unico attore, Tom Hardy, bravissimo nel ruolo del protagonista Ivan Locke, un lavoratore stimato, un marito amato e un padre affettuoso. Insomma, una brava persona. In una notte, però, durante il tragitto in automobile che lo condurrà a Londra, deve fare i conti con un errore commesso e con il fantasma di suo padre dal quale vuole prendere le distanze anche, e soprattutto, in queste poche ore decisive. Tutto accade, quindi, in una notte e non al di fuori dell’abitacolo della Bmw in movimento. In poco tempo, la vita di Locke si ribalta come un guanto. Lui insiste e persiste convincendosi che la decisione giusta non potrà mai far fallire i suoi piani e che tutto, di conseguenza, si risolverà per il meglio. Ma le giuste decisioni sono giuste per tutti o solo per noi stessi? È davvero così difficile spezzare le catene del nostro passato più buio? E poi, è più che lecito non imboccare l’unica strada che conosciamo ma siamo davvero pronti ad accettarne le conseguenze? Intessere relazioni convincenti e durature, per quanto sia meraviglioso, sembra un lavoro a tempo pieno, duro, faticoso e con risultati incerti. Viene, quindi, da domandarsi se basta realmente così poco per sgretolare un’intera scala di relazioni e trasformare in un mostro la persona che pochi attimi prima eravamo pronti ad amare con tutti i nostri sensi. Per il film, evidentemente sì.
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