Trovare un modo nuovo di raccontare la parola Amore non è davvero semplice, dopo millenni di poemi, liriche, musica, canzoni, testi teatrali e pittorici. Pippo Delbono commediografo di vecchia data e di fama internazionale ci riesce, adottando una forma onirica che ricorda molto la verve creativa di Jodorowsky. Va in scena così AMORE al Teatro Mercadante di Napoli, un viaggio lirico musicale e geografico. L’inizio è affidato alle donne, come quadri iconici, tableau vivant che rimandano financhè alle tre fasi alchemiche, partendo proprio in rosso con la delicata voce a cappella di Aline Fazao, per poi far apparire una madonna bianca, come la Virgen de Regla, la Yemayà afrocubana, tra suoni di onde e scosciare di conchiglie “amare ciò che il mare trascina sulla spiaggia, perché tutto in te sia estate, dune e mare”. E poi arriva la donna in nero, della nigredo, l’unica che non canta ma salmodia lamenti, raccontandoci quanto faccia paura amare. Il viaggio di ricerca e riconciliazione si dispiega attraverso la colonna sonora del fado “dicono che il fado è una preghiera, quindi io prego”, con assoli o duetti di chitarra del maestro Pedro Jòia e la potente voce cantata di Miguel Ramos che attraversa la platea con incedere lento risvegliando i cuori sopiti. La struggente Belina, cantata sempre dalla Fazao, ci riporta all’Angola colonizzata per secoli dai portoghesi. Le altalene di questo stato d’animo che è l’amore in una lenta processione o in un’esplosione al ritmo di parata delle danze dei vivi e dei morti messicane. Fino alle sponde della Sicilia, dove il regista si trovò bloccato nel duemilaventi e “l’Etna ha iniziato a sputare fuoco e fiamme”, due bianche spose ruotanti come dervisci danzano con alle spalle le immagini delle fiamme vulcaniche. Delbono come Omero ci accompagna nel viaggio con due voci narranti fuori campo, una registrata ed una dal vivo all’angolo finale della platea, dove con intonazione calda e piena di patos sussurra, leggendo, le crudeli risacche, i distacchi, i ricongiungimenti. L’albero secco, unico elemento scenico oltre lo straordinario disegno luci di Orlando Bolognesi e Corrado Mura, ritorna a fiorire nutrito dallo slancio poetico, diventando rifugio di pace per il lutto d’amore raccontato con tanta grazia dal regista stesso che vi si distende, finalmente in pace, sotto la sua folta ombra, regalando allo spettatore un ultimo quadro di lieve poesia.
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