Dopo una stagione di successi, debutta a Napoli, al Teatro San Ferdinando, La Madre di Florian Zeller, con Lunetta Savino, Andrea Renzi, Niccolò Ferrero e Chiarastella Sorrentino, per la regia di Marcello Cotugno; una produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Compagnia Molière e Accademia Perduta Romagna Teatri (repliche fino a domenica 24 marzo).
Classe 1979, lo scrittore e drammaturgo Florian Zeller è uno dei maggiori talenti del Teatro d’Oltralpe, con diversi testi all’attivo, tra cui la trilogia de Il Padre, La Madre, Il Figlio, nella quale si ripropone di indagare i rapporti non sempre idilliaci che maturano all’interno del nucleo familiare. Da Il Padre ha tratto una sceneggiatura cinematografica (il film, del 2021, è interpretato da Olivia Colman ed Anthony Hopkins che, per questa interpretazione, ha vinto l’Oscar), vincitrice del premio Oscar come sceneggiatura non originale. Ne La Madre, che rappresenta la prima parte di questa ideale trilogia, la partenza del figlio, ormai adulto, viene vissuta dalla donna come un vero e proprio tradimento, come abbandono del nido, a cui si aggiunge una decadenza dell’amore coniugale in atto da tempo.
«Anna – nota Marcello Cotugno – è una madre ossessionata da una realtà multipla, una sorta di multiverso della mente, in cui le realtà si sdoppiano creando un’illusione di autenticità costante in tutti i piani narrativi. Il suo mondo è un luogo in cui lei non si riconosce più, isolata da un ménage familiare che l’ha espulsa. Ma la responsabilità di questa solitudine non sta forse anche nell’aver rinunciato alla vita? Abdicare ai sogni, alle speranze e ai desideri unicamente per dedicarsi al proprio unico figlio maschio su cui riversare frustrazioni, rimorsi e ideali d’amore non è forse un cammino che inclina pericolosamente verso la disperazione? Il suo far leva sul senso di colpa non basta più a tenere vicini i figli. Nel dolore del lasciarli andare, per una madre, c’è tutta l’accettazione della vita nel suo divenire, c’è del lasciar andare una parte di sé per rinascere nel distacco».
L’originalità del testo richiede originalità anche nella regia, nel modo di mettere en espace questi personaggi che sembrano persone comuni ma che sono tutt’altro che lineari. La sfida che raccoglie Marcello Cotugno è vinta perché la sua messa in scena è del tutto consona alla poliedricità dei personaggi e alla complessità del testo. Qui, infatti, ogni scena viene riproposta due volte, come se la realtà avesse il suo doppio. Vien da pensare alle due realtà – quella soggettiva e quella percepita dagli altri – di pirandelliana memoria. Come se, nel suo concitato desiderio di protezione e controllo del figlio, assistessimo dapprima a ciò che la madre vorrebbe dire e poi a ciò che effettivamente riesce ad esprimere. Ovvero il contrario: prima le cose come si sono svolte e poi quello che avrebbe voluto che succedesse. Si capisce bene che, alla base della buona riuscita di questo spettacolo (che parte come una gustosa commedia, per assumere man mano tinte sempre più scure) ci sia un grosso lavoro che il regista fa con gli attori, ciascuno indotto ad interpretare due personaggi: il proprio e il suo doppio. Lunetta Savino, sulla quale si regge buona parte della pièce, è semplicemente strepitosa, con la sua aria stralunata da donna dipendente da psicofarmaci, che sa essere, però, anche spietata nel rovesciare responsabilità e malanimi sul paziente e rassegnato marito (l’ottimo Andrea Renzi) e sulla nuora, vera causa – a suo dire – dello sfascio del nido familiare. I giovani Chiarastella Sorrentino (la nuora, appunto) e Niccolò Ferrero (il figlio ingrato ma pur sempre amato, o piuttosto un ragazzo che cerca di sfuggire al soffocante amore egoistico della madre e di farsi una vita indipendente?) sono altrettanto incisivi. Le scene stilizzate di Luigi Ferrigno che rappresentano stipiti vuoti di porte rimandano a file che si aprono nella mente della protagonista e offrono un bellissimo effetto visivo con il disegno luci di Pietro Sperduti e coi costumi di Alessandra Beneduce. Da vedere.